Penisola di Strugnano
Le caratteristiche favorevoli della Penisola di Strugnano, soprattutto il clima marittimo e la posizione al riparo dal vento, hanno permesso all’uomo di insediarvisi e sviluppare le attività economiche tradizionali in armonia con la natura.
L’insediamento sparso, la coltivazione a terrazze, la pesca costiera e la produzione artigianale del sale hanno forgiato un paesaggio caratterizzato da una grande varietà di habitat e ambienti culturali.
La storia e lo sviluppo
Le prime testimonianze dell’insediamento nella Penisola di Strugnano risalgono all’epoca romana e sono state ritrovate nelle zone di S. Basso e Capo Ronco: una villa rustica (casa di campagna con edifici e terreni destinati alla produzione agricola), moli di un vecchio porto, oggi sommersi in seguito alla graduale elevazione del livello del mare durante i secoli, e dei singoli resti architettonici di dimensioni più ridotte.
Nelle fonti archiviali l’area fu menzionata per la prima volta nell’XI secolo, quando il patriarca di Aquileia Poppone di Carinzia la donò al monastero delle benedettine di Santa Maria di Aquileia. Il nome proprio di Strugnano, indicato per la prima volta su documenti ufficiali nel 1284, sembra provenire dalla parola latina Stronnianum, con il significato “di Stronnio”. Infatti, poiché nel IV e V secolo i territori solevano prendere nome dai proprietari di vasti possedimenti al suo interno, si può dedurre che Stronnianum fu il nome di una tenuta di proprietà di un certo Stronnio. Con il tempo, dalla denominazione italiana fu derivata anche quella slovena – Strunjan.
Per secoli, l’evoluzione della località si svolse in stretto rapporto con la vicina Pirano. E mentre quest’ultima cresceva da un insediamento tardoantico in una tipica città medievale, Strugnano, con il suo clima perfetto per la produzione del sale e la terra fertile ideale per la coltivazione di ortaggi e frutta, colture agricole, olivi e vite, rimaneva il suo retroterra economico naturale.
Nel periodo della fioritura di Trieste nel tardo ’700 e fino alla fine della seconda guerra mondiale, l’agricoltura fu l’attività primaria della zona. Gli strugnanesi trasportavano in barca ai mercati triestini frutta e ortaggi da raccolta primaverile che rendevano benissimo nel microclima speciale su lotti e terrazzamenti assolati. Successivamente, gli agricoltori locali si incentrarono sulla produzione dell’olio d’oliva, del vino e del cachi, e alcuni anni fa anche sulla coltivazione di carciofi e, nella zona costiera, dei mitili.
La posizione economica di Strugnano, che per i trasporti maggiori dipendeva dal porto di Pirano, cambiò radicalmente all’inizio del XX secolo in seguito alla costruzione della linea ferroviaria a scartamento ridotto tra Trieste e Parenzo che portò progresso in tutta la Penisola dell’Istria, ma soprattutto nelle zone elevate dell’entroterra che fino ad allora erano state praticamente isolate dalle città costiere. Diverse ville e pensioni furono erette durante questo periodo a Strugnano, e anche se agli inizi degli anni ’30 la cosiddetta Parenzana fu dismessa, la costruzione di strutture turistiche continuò. I collegamenti ferroviari perduti vennero sostituiti dal traffico di veicoli a motore, mentre il turismo rivitalizzato della vicina Portorose forniva l’impulso per il progresso in questo campo anche a Strugnano.
Le svolte decisive nello sviluppo di Strugnano e i suoi dintorni furono la designazione dell’area come parco naturale in seguito a decreti varati dai comuni di Isola e Pirano nel 1990 e la sua protezione a livello statale nel 2004. L’obiettivo della fondazione del Parco naturale Strugnano fu la promozione di sviluppo sostenibile, ovvero in armonia con la tutela di valori naturalistici, e la conservazione della diversità biologica e paesaggistica senza ostacolare le prospettive di crescita economica per la popolazione dell’area.
Un benvenuto dai pini
Oggi questo viale, con circa 110 alberi su entrambi i lati, le cui chiome in contatto creano un vero e proprio effetto tunnel, è il più lungo e il meglio conservato in Slovenia. Nel 2004 è stato dichiarato Monumento naturale, parte del Parco naturale di Strugnano.
Se tra il 1930 e il 1940 vi foste trovati in questo preciso punto, avreste visto la Valle di Strugnano gradualmente acquisire il suo aspetto di oggi. Dopo che nel 1935 la linea ferroviaria Parenzana era stata soppressa dopo tre decadi di operatività, la sua funzione di collegamento tra le città litorali e l’entroterra istriano fu rilevata dalle strade. Con la realizzazione del tratto principale Capodistria-Isola-Portorose è stata prevista anche la piantumazione di alberi di pino lungo la strada.
Curiosità
- Il pino domestico (Pinus pinea) non è una specie molto longeva, poiché solo raramente supera i 150 anni di età. Raggiunge un’altezza massima di 25 m.
- L’uomo coltiva il pino per i suoi semi commestibili – i pinoli – da almeno 6.000 anni. Questi vantano un alto contenuto nutritivo (39% di proteine, 50% di grassi) e occupano un posto importante nella cucina mediterranea.
- Gli strobili (detti anche pigne) e i semi di pino maturano solo 3 anni dopo la pollinazione. Già dai tempi dell’antichità, i pinoli vengono considerati un afrodisiaco, mentre le pigne sono state spesso rappresentate in arti figurative con diversi valori simbolici, più frequentemente associati alla fertilità.
Il Santuario di Santa Maria della Visione
Nel 1700 il vescovo Paolo Naldini menzionò nella sua eccellente opera Corografia ecclesiastica diversi luoghi di venerazione e preghiera a Strugnano: la grande chiesa di Santa Maria e le tre più piccole, la chiesa di San Cristoforo, la chiesa dello Spirito Santo e la chiesa di San Basso. Mentre l’esistenza delle tre minori è oggi testimoniata solo da documentazione scritta o fotografica, la chiesa dedicata alla Madonna continua a dominare dall’alto della falesia come il più popolare centro di pellegrinaggio in Istria.
L’edificio originale si ergeva in questo luogo fin da circa il 1200. Su una delle mappe dell’Archivio civico di Pirano del periodo 1200-1210 c’è già un insediamento rurale indicato con l’iscrizione «Planus seu planetus S. Mariae» (Sulla piana di Santa Maria), che circondava la chiesa e portava il suo nome. Inizialmente, il santuario fu retto dalle monache benedettine del convento vicino alla chiesetta di San Basso e, dopo la loro partenza dalla zona, dai frati benedettini del monastero dall’altra parte delle saline, che solevano riunirsi in preghiera in questa chiesa quando lavoravano nei vicini vigneti.
La prima importante ristrutturazione dell’edificio fu effettuata nel 1463, resa possibile da una generosa donazione da parte di Osvalda Petronio Barcazza, una vedova benestante di Pirano. In suo onore, la chiesa per un tempo portò persino il suo nome. Quando anche i benedettini del monastero lasciarono la zona, la gestione del santuario fu assunta dal capitolo di Pirano.
La leggenda narra che nel 1512 due guardie delle vigne videro la Madonna apparire sulla soglia della chiesa e lamentare il suo cattivo stato, segno che la congregazione si era scordata di lei. Dopo la sua apparizione, l’edificio fu rinnovato, allargato e ribattezzato Santuario di Santa Maria della Visione.
L’evento miracoloso che presto trasformò la chiesa nel luogo sacro più venerato in Istria fu raffigurato nel 1520 dal pittore Francesco Valerio. La sua opera su legno ancora oggi adorna l’altare centrale, mentre le pareti della chiesa sono coperte da dieci grandi tele che rappresentano scene della vita di Maria, dalla nascita alla glorificazione, e furono commissionate e forse anche dipinte dal parroco piranese Tomaž Gregolin tra gli anni 1656 e 1671.
Nel 1955 l’edificio passò ai francescani sloveni della provincia di Santa Croce. Dal 2014, quando i francescani si ritirarono dalla chiesa e dalla città di Strugnano, la parrocchia e il monastero sono gestiti dalla diocesi di Capodistria.
Il ricco patrimonio immateriale associato alla leggenda dell’apparizione, ai pellegrinaggi, processioni e salvataggi miracolosi consiste di narrazioni, memorie, poesie, ed è sostenuto da una serie di dipinti illustrativi e immagini ex voto conservati nella chiesa.
Recentemente, è stata ripristinata la celebrazione della Visione della Madonna con una processione di barche che trasporta la statua della Vergine Maria alla casa di Dio di Strugnano.
La croce di Strugnano
Sul bordo della falesia, sin dal 1600 s’innalza un’imponente croce di pietra, un avvertimento per i marinai sulla prossimità della terraferma e un indicatore dell’ubicazione del Santuario di Santa Maria della Visione. In passato, le navi che passavano sotto la croce solevano suonare la sirena in saluto alla Madonna e i marinai facevano il segno della croce innalzandole una preghiera per un rientro sicuro. Secondo una leggenda, il punto in cui adesso si trova la croce fu luogo di un miracolo avvenuto un lontano 15 agosto.
Si era scatenato un violento temporale che quasi sicuramente avrebbe affondato tutte le navi in mare quando, sopra la Baia della Santa Croce apparve la Madonna. Subito il mare si abbonacciò, il temporale si chetò e i marinai si salvarono. Dicono che ancora oggi si possono vedere impresse nella roccia le impronte e le tracce delle lacrime nel punto dove la Santa Vergine pianse per salvare i naviganti.
Nel 1912 i frati francescani e i marinai fecero riparare la croce già abbastanza fatiscente, che solo pochi anni dopo cedette alle forti raffiche della bora e crollò. Fu sostituita da una più grande e più robusta e provvista altresì di un piedistallo e un recinto.
Il punto dove si erge la croce offre una stupenda veduta della riva sotto la falesia e del Golfo di Trieste e con il bel tempo è possibile ammirare anche il Triglav, la più alta vetta slovena.
Il paesaggio culturale e agrario
La Penisola di Strugnano è una zona litoranea slovena rimasta al riparo da urbanizzazione e industrializzazione intensiva. La Penisola e la Baia di Strugnano, che si apre alla fine della Valle di Strugnano ed è in parte trasformata in saline, rappresentano un’unità paesaggistica integrale comprendente elementi sia di natura primordiale che coltivata, una combinazione di caratteristiche naturali e testimonianze di attività umana.
Unica località della costa slovena a conservare la struttura dell’insediamento sparso, Strugnano esibisce l’architettura rurale tipica del litoraneo della seconda metà del XIX e prima metà del XX secolo. È composta dei borghi di Santo Spirito, Baredi, Carbonaro, Dobrava presso Isola, Dolina, Sangueterra, Ronco, Marzanedo, Borgola e Stanzia.
Qui il tipico insediamento mediterraneo raggruppato non si è mai sviluppato. Le case sono sparse per i pendii terrazzati dei colli vicini, ciascuna regnante sul proprio pezzo di terra. Esempi di fattoria con la casa e gli annessi agricoli eretti parallelamente per risparmiare spazio oppure i cascinali sono rari e inconsueti, poiché le tenute sono abbastanza vaste (circa 25 ettari), con la casa di famiglia di solito sita nella loro parte centrale.
L’elemento distintivo del paesaggio agrario del litorale capodistriano sono i terrazzi culturali.
Impediscono l’eccessiva erosione del suolo durante rovesci di pioggia e trattengono l’umidità in profondità nel terreno durante il periodo di siccità estiva. A Strugnano ci sono tipicamente i terrazzi agri/viticulturali, orto-frutticoli e soprattutto i terrazzi puramente orticoli, che sono quelli maggiormente adatti per la coltivazione di primizie.
I pendii terrazzati destinati alla produzione agricola sono più frequentemente sostenuti da muretti a secco, costruiti senza legante, che rappresentano uno spazio vitale per numerose specie animali.
Per ulteriori informazioni sulla costruzione a secco cliccate sui link qui sotto.
- Video sulla costruzione a secco (in sloveno) prodotto dall’Istituto pubblico della Repubblica di Slovenia per la tutela del patrimonio culturale.
- Manuale di costruzione a secco (in sloveno e croato).
La mela d’Oriente nel Golfo di Trieste
Nel primo ’900, Strugnano era conosciuta soprattutto per la coltivazione di frutta e ortaggi primaverili, di cui riforniva i mercati triestini. Le fragole, il cui aroma pervadeva l’intera Valle di Strugnano, erano molto apprezzate, come anche le ciliegie, albicocche e pesche. Successivamente, gli agricoltori si sono orientati verso la produzione di olio d’oliva e vino e sulla coltivazione di carciofi, piante autoctone del litorale istriano. Nell’ultimo decennio e mezzo, però, il re indiscusso dell’agricoltura della Penisola di Strugnano è il cachi.
Detto anche mela d’Oriente, il cachi (Diospyros kaki) è arrivato in Slovenia dall’Italia, prima nella regione litorale, negli anni precedenti la seconda guerra mondiale. Nella zona costiera fu introdotto da Stanislav Knez, la cui famiglia rimane a tutt’oggi tra i più grandi produttori di questo dolce frutto in Slovenia. Stanislav, che prestava servizio nell’esercito italiano, era di ritorno con il suo battaglione dalla Libia, quando durante una sosta in Sicilia vide per la prima volta una piantagione di cachi. Subito dopo il suo rientro a casa chiese un prestito a suo padre per comprare le piantine e nel 1939 mise nella terra il primo albero del cachi.
Fino al 2001 c’erano stati scarsi ritorni sul grande investimento nella piantagione, ma Stanislav visse abbastanza a lungo per vedere il nutriente pomo apprezzato come si merita in tutta Slovenia. Attualmente, le piantagioni strugnanesi rendono un terzo dell’intera produzione slovena e nei primi giorni di novembre la città ospita anche un festival dedicato a questo frutto autunnale.
«In fuga dai giardini»
Da millenni, l’uomo coltiva piante a suo vantaggio. Dopo tutto, è questo che ha permesso ai nostri antenati di stabilirsi, ponendo così le basi per la civilizzazione. Ma se una volta l’uomo coltivava piante per la propria sopravvivenza e usava le specie che prosperavano nelle sue immediate vicinanze, adesso la situazione è molto diversa: gli alberi, frutici e fiori spesso li piantiamo solo per decorazione, e a volte le specie alloctone, con la loro bellezza esotica, ci attraggono più di quelle indigene.
Una specie trasferita dal suo areale storico in un ambiente completamente nuovo, dove prima non era presente, si definisce aliena. Poiché di solito non è adeguata per le nuove condizioni di vita, non può sopravvivere senza l’aiuto dell’uomo e nella maggior parte dei casi si estingue. Quando però si ritrova in un ambiente simile al suo originario, è capace di autosostenersi e stabilire alti livelli di popolazioni. Per una specie così adattata al nuovo habitat diciamo che si è naturalizzata. Ne conosciamo tante che compongono il nostro ambiente naturale e spesso non ci rendiamo neanche conto che sono state introdotte da altre regioni.
Infatti, al gruppo della flora alloctona del nostro litorale appartengono quasi tutte le specie tipicamente mediterranee, incluso l’olivo, l’alloro e il pino. Quest’ultimo si diffonde a causa dell’azione dell’uomo già da così tanto tempo che la sua vera origine è ancora oggigiorno un mistero. Le specie vegetali che crescono nei nostri giardini sono prevalentemente allogene e per quanto riguarda gli organismi del mondo animale, quello della zanzara tigre è ormai un esempio ben noto a tutti.
A volte succede che la specie nativa e quella introdotta vengano in contatto nello stesso ambiente, nel quale condividono anche modelli di vita simili. Quando la nuova specie è più competitiva nello stabilire il suo spazio vitale – o, in caso di animali, di procurarsi il cibo –, se si diffonde meglio e allo stesso tempo rimane, in quanto ultima arrivata, senza nemici naturali che possono frenare la sua diffusione, comincia a prendere il sopravvento sulle specie originarie e ad alterare l’equilibrio dell’habitat nel quale si è venuta ad affermare. Alcune piante possono modificare il pH del suolo con le loro foglie cadute o l’apparato radicale ramificato a tal punto da compromettere la sopravvivenza delle loro vicine. Altre, le cosiddette piante pioniere, riescono a colonizzare aree mai precedentemente abitate o insediarsi per prime in ecosistemi perturbati (radure causate da incendi boschivi, che spesso sono parte del ciclo naturale), privando la vegetazione autoctona dello spazio per crescere. Tali organismi sono chiamati specie aliene invasive.
A rendere ancor peggiore la situazione è il fatto che il carattere invasivo di un organismo generalmente non è prevedibile e lo si può verificare solo quando sta già creando problemi in un particolare habitat. La gran parte delle specie invasive si sono diffuse casualmente, “fuggendo” dai nostri giardini, alcune però le abbiamo rilasciate nella natura intenzionalmente, senza renderci conto del danno che potevano recare alle specie native e al nostro ambiente naturale. È il caso della tartaruga dalle orecchie rosse (Trachemys scripta elegans), un popolare animale domestico. Dopo che i loro proprietari si erano stancati di tenerle, le abbandonarono nei vicini stagni e pantani, firmando così la condanna della testuggine palustre europea (Emys orbicularis), presente anche in Slovenia, che la nuova specie sta energicamente scalzando dal suo spazio vitale.
Per prevenire la diffusione di organismi a impatto negativo sulla biodiversità, si dovrebbe, prima di introdurre nell’ambiente qualsiasi specie vegetale o animale aliena, informarsi esaurientemente sul livello della sua invasività o, meglio ancora, scegliere una specie simile domestica al posto di quella estranea. Dopo tutto, una pianta nativa di un determinato bioma è meglio adattata ad esso ed è, con tutta probabilità, in grado di conservarsi anche in condizioni meteorologiche straordinarie. Inoltre, nel caso di “fuga” o rilascio in natura non vi causa modifiche rilevabili.
Molte informazioni sulle piante e animali esotici e sui problemi che creano, nonché suggerimenti per la loro sostituzione con varietà simili indigene sono disponibili sul sito dedicato alle specie aliene in Slovenia.
I doni del mare
A Strugnano, in passato, la tecnica di pesca comunemente impiegata era quella con reti a circuizione chiamate saccoleve. In primavera, quando le sardine venivano vicino alla costa per deporre le uova, i pescatori le circondavano con le barche, battendo i piedi sul pavimento in legno per spaventare i pesci e cacciarli nella rete, con la quale in precedenza avevano recintato la zona costiera. Il lavoro era arduo, perché la rete si stringeva e salpava con la forza delle braccia. Quando nella chiesa vicina sentivano lo scalpitio dei pescatori, suonavano la campana per richiamare uomini e bambini dai campi. In cambio dell’aiuto nel tirare a riva la rete ciascuno di loro riceveva un berretto pieno di pesci.
Oggi i pescatori operano nella zona costiera del parco con barche e reti piccole, pescando moderate quantità di pesci più grandi e solo alcuni mesi all’anno, dando nel frattempo alla fauna ittica la possibilità di ripopolarsi.
Nell’ultimo decennio, sei pescatori commerciali del mandracchio di Strugnano avevano il permesso di pescare nelle acque del parco. Le specie prevalenti nella pesca in questo periodo sono state le sogliole, seppie, orate, passere pianuzze, pagelli fragolini, branzini, scorfani rossi e cefali. La composizione e abbondanza della fauna ittica varia di anno in anno, difficilmente però si potrebbe determinarne i motivi vista la ristrettezza del campione.
Un’altra fonte di guadagno per la gente del posto è la molluschicoltura. Nell’area della riserva naturale si usava coltivare due tipi di bivalvi e diverse altre specie, oggi protette, si raccoglievano nelle acque del parco.
I primi allevamenti di molluschi nella Baia di Strugnano furono istituti per la coltivazione di ostriche comuni (Ostrea edulis), che erano molto apprezzate anche alla corte viennese; tuttavia, negli anni Settanta dovettero lasciare il campo alle ostriche concave (Crassostrea gigas), che crescono più rapidamente e sono in grado di adattarsi meglio a nuovi habitat. Ed effettivamente, questo bivalve si è adattato talmente bene al nostro ambiente da diventare una specie invasiva nelle acque del mare sloveno.
L’altro mollusco, coltivato qui ancora oggi, è il mitilo mediterraneo (Mytilus galloprovincialis), conosciuto sull’Adriatico sotto oltre 30 nomi diversi, il che testimonia la sua grande importanza per l’economia di questa regione. In Europa fu menzionato come specie coltivata nel lontano 1235, e i primi impianti di allevamento sarebbero stati conosciuti già nell’antichità.
Nel 1981 il comune di Pirano ha rilasciato il permesso per la mitilicoltura commerciale nella Baia di Strugnano. L’allevamento si basa sulla tecnica dell’acquacoltura estensiva senza l’uso di mangime, in quanto i molluschi traggono il cibo necessario per la loro crescita e sviluppo dall’ambiente circostante attraverso la filtrazione. I campi di allevamento si estendono su una superficie totale di 11 ettari, equivalente a quasi 15 campi di calcio, e rendono tra le 200 e le 300 tonnellate di molluschi all’anno.